Realismo Magico
I passi rapidi mi allontananano sempre più dall’Obelisco, in quel frangente di sera in cui i cangianti colori del cielo sembrano legarsi alle tonalità del monumento illuminato, sono quasi le sei e la città ha ancora tanto da raccontare, a quest’ora Buenos Aires sostituisce la trasparenza del giorno con un ambiguo gioco di luci e ombre dove i confini tra tranquillità e insicurezza, illusione e realtà si condensano nella labile interpretazione di chi li avverte. Le strade del centro sono Borgesiane e la vita che fluisce sembra quasi un’invenzione letteraria sul punto di convergere “nelll'incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto'“.
Ho voglia di immergermi in questa illusione e scoprire la verità che questa notte ha da raccontarmi, perché l’immaginario costruito sognando questi luoghi non si discosta più di tanto dalla loro rappresentazione reale. Metto le cuffiette e seleziono lo Shuffle Play di Spotify per isolarmi dal rumore delle auto che sfrecciano come schegge impazzite su Avenida Corrientes e con la musica nella testa sorpasso le anime presenti lungo il cammino. Improvvisamente il mio andare deciso tentenna all'altezza del Teatro Gran Rex, scosso dal riff di una chitarra elettrica, quindici secondi di note inconfondibili per chi è appassionato di rock argentino, che antecedono la prima strofa della canzone appena iniziata:
“Si a tu corazón yo llego igual, todo siempre se podrá elegir”:
Seguir Viviendo sin tu amor di Luis Alberto Spinetta inizia ad accompagnarmi esattamente quando la mia ombra costeggia il teatro che in passato ha visto “El Flaco” protagonista di concerti memorabili. Coincidenza? Finzione? Realtà? Non ho tempo per indugiare nel dubbio che lentamente mi assale, devo marciare rapidamente per raggiungere la Plazoleta del Tango ai piedi del Centro Culturale Kirchner dove è in corso un evento. Erano anni che desideravo immortalare con la macchina fotografica gente comune stringere tra le braccia l’inganno di un attimo avvinghiato alle note di un pensiero triste, devo sbrigarmi, da li a poco le ombre della sera sarebbero diventate intense e avrei fatto fatica a proteggere quelle luci che rendono una fotografia memorabile.
Il centro Culturale Kirchner domina quel fazzoletto di città dove passato, presente e futuro di Buenos Aires si incontrano: la Casa Rosada e i grattacieli di Puerto Madero sono pressoché equidistanti dalle soglie dell’immenso stabile e la storica Plaza de Mayo è quasi percettibile. Penso che questo sia il posto perfetto per il tango, per la sua storia ibrida, per la sua capacità di amalgamare generazioni distinte in una ronda dove età e stato sociale non contano: vecchio e nuovo, ricchezza e umiltà, desiderio e rassegnazione si incontrano sulla pista e i volti rugati e giovani che si sfiorano lungo tre minuti di ballo sembran quasi simboleggiare i monumenti che circoscrivono la piazza.
Tra i palazzi che costeggiano Avenida Leandro Alem filtra una luce calda, perfetta per la fotografia, una tonalità molto più interessante dei 4000 Kelvin provenienti dal palchetto posizionato sul lato corto di un rettangolo immaginario, delimitato da centinaia di sedie poste sui lati lunghi, da dove la gente osserva i danzatori muoversi in senso antiorario. Al centro del rettangolo due professionisti aprono le danze sulle note di Mi Buenos Aires Querido e attorno a loro uno sciame d’anime inizia a ruotare incessantemente, tango dopo tango, fermandosi solo nei brevi intervalli privi di musica quando le coppie si sciolgono.
Mi inginocchio per cercare un’ angolazione interessante e per non essere d’intralcio alla gente che oltrepassa i margini della pista al fine di raggiungerne il fulcro e commetto l’errore di iniziare a guardare attraverso il mirino e scattare decine di esposizioni senza prima osservare, senza prima stabilire un rapporto chimico con l’universo davanti ai miei occhi e fotografare con lo sguardo prima di farlo con l’otturatore della macchina . Cambio posizione, mi muovo in senso opposto a quello dei danzatori per poter immobilizzare i loro passi, i loro volti, quei movimenti controllati, spontanei, genuini che forse nemmeno loro sanno di esprimere. Nel circumnavigare la pista occupo per qualche minuto la stessa posizione di Arturo, un fotografo cileno innamorato di Buenos Aires, arrivato in città da qualche giorno e come me desideroso di portar via cimeli visivi in grado di congelare impercettibili istanti di vita quotidiana. Ci fermiamo per parlare, scambiamo qualche opinione e chiediamo l’un l’altro se abbiamo già scattato quella foto che ci fa tornare a casa soddisfatti. Scuoto il capo, non ho rivisto le immagini sullo schermo posteriore della mia Fujifilm, ma so che l’esposizione che cerco non l’ho ancora realizzata perché non ho bisogno di rivederla dopo averla fissata sul sensore, so già che sta per materializzarsi quando clicco il pulsante di scatto e avverto una sensazione di appagamento e certezza che dall’esterno penetra dentro, un po’ come quando, anni orsono, sui campi da calcio del Sud sapevo che il pallone sarebbe andato in rete prima ancora che il mio piede sinistro lo avesse colpito.
Sarà forse il mio essere perfezionista ma non sono contento dei miei scatti, ho bisogno di una foto speciale in grado di unire l’essenza del tango, voglio uno scatto sobrio, semplice, passionale, seducente e al tempo stesso nostalgico. Ma è difficile abbandonarsi completamente alla fotografia in un momento di tanta bellezza dove il piacere provato nell’ammirare l’armoniosa sinergia di corpi puo’ essere elevato solo immergendosi in quell’universo di persone che condividono un attimo lungo un giro di danza, prima di perdersi tra altre braccia. La musica è toccante, i danzatori ammalianti e la voce di Gardel, il bandoneon di Piazzolla trasportano i miei pensieri lontano, vicino, ovunque.
Come con le macchine di Avenida Corrientes, questa fusione di emozioni è diventata quasi rumore e per toccare la pura bellezza circoscritta tra illusione e realtà ho bisogno di isolarmi, di distaccarmi solo per un attimo dal coinvolgimento emotivo, ho bisogno di immeregrmi nel silenzio interiore in grado di immortalare quel fuggente momento decisivo nascosto tra la folla danzante, e allora rimetto le cuffiette, lascio ripartire la canzone di Spinetta, porto la macchina fotografica il più vicino possibile al volto e attendo. Attendo solo una manciata di secondi perché dalla folla emerge lei, una ragazza tanto giovane negli anni quanto antica nel portamento, un’ astratta invenzione letteraria uscita in punta di piedi dai passi più raffinati di un romanzo concepito nel non distante Café Tortoni, una morocha dai lineamenti fini e al tempo stesso marcati, come i rudimenti di questa terra argentina, patria di migranti e sognatori, madre di generazioni che vivono sospese, con il passato dentro e il viso rivolto al domani.
La vedo volteggiare un attimo, indugiare cinta a quello che per tre minuti sarà il suo uomo, alzare lo sguardo intenso, nostalgico, poetico, solitario e guardare lontano quasi a voler cercare qualcosa, qualcuno, la sua personale verità, esattamente quando la voce di Spinetta intona:
“Y si acaso no brillara el sol
Y quedara yo atrapado aquí
No vería la razón
De seguir viviendo sin tu amor”
L’otturatore fa click, sento la vibrazione che, dall’indice appoggiato sul pulsante, scende lungo il braccio per entrar nel profondo più recondito e capisco che quello è lo scatto tanto agognato. Porto la macchina fotografica al petto, guardo la ragazza e il suo partner completare sei passi di Baldosa, poi lei scompare nella folla dalla quale era apparsa, quasi a voler tornare in quella realtà lontana dall’orizzonte dove aveva posto lo sguardo. Mi fermo, cerco Arturo per condividere la foto, ma era già andato via, e nella speranza che anche lui avesse fotografato quello che cercava mi siedo sulla scalinata del Kirchner, rimuovo le cuffiette e ascolto “Volver” di Gardel fuoriuscire dagli altoparlanti. È tempo di lasciarsi trasportare dal momento e guardando la folla danzare mi chiedo se questa epifania visiva sia stata coincidenza, realtà o finzione. Forse coincidenza, forse realtà, forse finzione, forse l’insieme di tutto o lo zero assoluto, forse un attimo insensato immortalato a un duecentocinquantesimo di secondo, ma sicuramente questo è quello che cercavo, la mia finta verità persa in uno sguardo che nasce nel segreto spazio interno e guarda lontano, sempre, verso altre latitudini. Mi alzo, alla mia sinistra i grattacieli di Puerto Madero sono ormai illuminati, guardo la casa Rosada sgargiare nel buio e discretamente mi addentro nella notte di Buenos Aires.
«Il tango è un pensiero triste che si balla»
- Enrique Santos Discépolo
Seguir viviendo sin tu amor - Luis Alberto Spinetta
Volver - Carlos Gardel