Estoy mirandote desde Madrid

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Il nastro trasportatore numero 6 ha appena iniziato la sua circolare operazione di consegna dei bagagli del volo proveniente da Oporto e la gente ammucchiatasi attorno ne disegna la circonferenza nella trepidante attesa di scorgere la sagoma della propria valigia. Un trolley turchese, una valigia di cartone, un borsone da calcio e decine di altri contenitori di vestiti, oggetti e ricordi fuoriescono, come una cantilena ritmata, dalla bocca del dispositivo, cadenzando il sollievo e l’apprensione dei viaggiatori.

Lontano dalla chiassosa ciurma sgomitante, attendo con calma il mio bagaglio, lo raccolgo e mi preparo ad affrontare gli ultimi due impegni del passeggero in arrivo: il controllo dei documenti e la verifica delle capacità emotive dopo lo spalancarsi delle porte scorrevoli che danno accesso alla sala d’attesa. Già, le porte scorrevoli, una delle metafore del viaggio, la linea di demarcazione che divide l’ultima fatica del viandante dal contatto psicofisico con un nuovo frangente di vita, il viaggiatore dalla meta, l’attesa dall’abbraccio, la solitudine dalla compagnia, la madre dalla figlia, l’amico dagli amici, l’amante dalla persona amata, la fine dall’inizio, l’inizio dalla fine.

Sterminate sono le contrapposizioni e le sensazioni che contraddistinguono gli ultimi momenti di un viaggio e incalcolabili sono i conflitti e le tracce del passato che si susseguono durante gli ultimi metri che mi separano dal fragore delle persone in palpitante attesa aldilà dell’uscio del terminal. Agosto, Dublino e le sere d’estate, Gennaio, Oulainen e le notti d’inverno, il calore delle lenzuola, il freddo dei divani, vicinanza e isolamento, sporche menzogne e nude verità, felicità e dolore, piacere e fastidio, interminabili passeggiate su e giù per le strade romane, per la Gran Via, lungo le strade della nostra infanzia, quei tramonti, quelle notti, quelle albe, quelle mattinate prima della colazione, dopo la colazione. Le illusioni e i ricordi sono sconfinati perfino quando si impadroniscono di effimeri attimi di vita e la collisione con la realtà è di poca durata, anche quando lascia strascichi duraturi. Le porte automatiche si spalancano e come previsto tra la moltitudine delle persone in attesa, ad aspettarmi c’è la percettibile sagoma dell’assenza, l’invisibile presenza di chi ha preferito l’oblio alla scrittura di nuove memorie. Silenziosamente mi disgiungo dalla religiosa manifestazione delle emozioni di centinaia dipersone e mi siedo su una delle scomode seggiole della sala alla sinistra delle porte scorrevoli. Non ho tempo per pensare alle domande da porre al destino, le priorità nella vita possono cambiare a seconda delle situazioni e in un frangente ampio quanto uno sguardo realizzo come l’assenza di una persona implichi la privazione di un tetto, di un letto, di un posto dove trascorrere in totale tranquillità i miei giorni spagnoli. Il cellulare è la mia unica salvezza, i contatti l’unica speranza, l’improvvisa nomadanza la mia unica certezza.

Fortunatamente la sorte non è del tutto cinica ed in poco più di dieci minuti i fantasmi del vagabondaggio cessano di aleggiare nella mia mente, in quanto, dopo un interminabile giro di chiamate, apprendo che a Virgen de Begoña c’è un posto dove posso pernottare in relativa serenità, la Pension Diez. Devo solo indugiare qualche ora all’aeroporto e attendere le 19:00 per muovermi verso una zona di cui non conosco l’esatta locazione. Estraggo dalla borsa la mappa della metro, tra l’arcobaleno delle linee seleziono la più conveniente combinazione di colori per rendere rapido il tragitto dal terminal a questo sconosciuto quartiere della città e, dopo aver riposto la cartina nel taschino della camicia, mi immergo mestamente in deleterie introspezioni. Ora dopo ora nuovi aeroplani atterrano, le porte scorrevoli si spalancano continuamente rendendomi spettatore di un interminabile film in cui sono già apparso come comparsa o forse come attore protagonista. Scene gioiose, luttuose, comiche, drammatiche, toccanti, banali si susseguono circolarmente come i bagagli dalle diverse forme e colori sul nastro trasportatore e osservo ciò che ho vissuto, ciò che avrei voluto vivere. Vedo le braccia che non mi hanno avvinghiato, le lacrime che non ho pianto, i sorrisi che non ho sorriso, il presagire la mancanza negli occhi della gente, il sentore della beatitudine in un bacio a lungo atteso, vedo me, vedo te, distinguo nella futilità di ogni istante la variegata tonalità delle emozioni dell’uomo. Le persone vanno e vengono e con loro perdo la cognizione del tempo, perdo la cognizione delle mie emozioni perché oggi in un aeroporto le ho vissute tutte, in me e con i miei occhi, dalla più ordinaria alla più folle, dalla più tragica alla più raggiante dalla più misera alla più intensa. Sono le sette, devo andar via e tu non sei venuta, ma ti ho vista, ti ho stretta e ti ho lasciata tra le braccia di mille persone qui a Barajas.

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