Amazigh

Mohammed marcia disinvolto verso la duna più alta di Erg Chebbi, l’andatura dinoccolata fa ciondolare la chèche di 10 metri ben attorcigliata attorno al capo e la sua djellaba blu intenso lo rende un punto di riferimento tra le cangianti sfumature gialle del deserto di Merzouga.

Amazigh.jpg

Una carovana di dromedari segue la sua ombra, ogni passo sembra essere calcolato per far sì che il raggiungimento della vetta possa coincidere con l’ormai prossimo tramonto distante un’ora di marcia. Il visibile confine con l’Algeria delimita l’esteso mare di sabbia levigato da un vento apolide e dall’alto di una cunetta Mohammed gridando “A-F-R-I-C-A” indica la linea d’orizzonte alle nostre spalle dove lentamente il sole si sta immergendo. Un semplice gesto zittisce gli ultimi bruisii e il silenzioso trapasso del giorno cancella ogni singolo r-umore, distrugge il ricordo di frenetici ritmi giornalieri brutalmente istituiti da una società lontana, riconsegnando alla natura il ciclico controllo del tempo. 

Il calar del giorno affonda con sé uno spirito soggiogato da inutili email, computer, scadenze, progetti e meeting serali per riconsegnare agli occhi la semplice bellezza di momenti troppo fugaci per essere apprezzati quando si è succubi della sistematica routine moderna che ci soggioga, che ci rende ciechi spingendo le emozioni alle periferie delle nostre vite. Un antico proverbio Tuareg dice:

Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci e il deserto affinché possa ritrovare la sua anima

Ed è esattamente qui, alle porte del Sahara, su uno sfondo tanto arido quanto ospitale che l’indice dell’uomo berbero, teso a mostrare la linea tra cielo e terra, raffigura l’estremo tentativo di mostrare la retta via per sottrarci al crepuscolo del mondo e farci ritrovare l’identità perduta, il continente in noi stessi. 

Mohammed è un berbero, anzi un amazigh, un uomo libero, non ha mai lasciato la sua casa, il suo deserto, mi dice che sogna di andare ad Essaouira per vedere l’Oceano per la prima volta, per vedere l’azzurro del mare essere più vasto delle tonalità dell’arenile, non ha studiato ma parla quattro lingue imparate conversando con i turisti stranieri passati in questo angolo di Marocco, conosce la situazione politica europea, sa dove si trova la Puglia, non sa creare un diagramma di flusso o incrementare i profitti di un’azienda ma è in grado di orientarsi con le stelle, di trovare oasi sperdute, di proteggersi dalle tempeste di sabbia, di soprav-vivere.

L’arancione del cielo inizia a cedere il passo alle prime sfumature della sera quando raggiungiamo il bivacco e sorseggiando un “whiskey berbere”, un tè alla menta offertoci con sorriso, riassaporiamo il gusto della lentezza, della condivisione dell’attimo, del piacere di sentirsi a proprio agio in un anfratto remoto fuori dal tempo dove l’immensità della terra e del cielo pacificamente ti entrano dentro. Bastano poche parole scambiate in lingue franche attorno ad un banchetto per aprire nuove porte e ricongiungere frammenti di vite nomadi sparsi in cantoni isolati.    

Viviamo in un mondo nel quale non siamo più in grado di emozionarci, tutto è letteralmente a portata di mano o di pollice, la tecnologia ci connette e ci divide al tempo stesso, ci rende statici, viaggiamo seduti s-comodamente su una poltroncina ergonomica senza dislocarci, senza contestualizzarci nel luogo che fruiamo, siamo sempre più conoscenti e sempre meno esploratori, sempre più cerebrali e sempre meno animali, spaventati di andare verso geografie distanti, di migrare per diventare diversi, siamo timorosi di abbandonare l’imposta frenesia socio-lavorativa che inesorabilmente ci ruba il tempo, esiliandoci dal piacere di gustare la vita con la giusta cadenza, sottraendoci l’innata facoltà di tornare ad essere Imazighen, uomini liberi. 

Intanto su Erg Chebbi scende la notte e le stelle si accendono. 

Previous
Previous

Barcelona és molt més

Next
Next

Una faccia, una razza